Jean-Louis Comolli, uomo di cinema - DINAMOpress

2022-10-22 19:05:51 By : Ms. Jannat Mia

Ritratto di Jean-Louis Comolli, morto a maggio a 81 anni dopo una lunga carriera. Un impegno costante nei tanti aspetti del mondo del cinema. Una disamina della sua vita scritta da uno studioso che ha dedicato a Comolli importanti contributi

Critico, teorico del cinema e cineasta, Jean-Louis Comolli è morto nella sua città d’adozione, Parigi, il 19 maggio 2022, all’età di 80 anni (era nato il 30 giugno 1941). Redattore di “Cahiers du cinema” dal 1965 al 1973, la sua reputazione internazionale nel campo degli studi cinematografici si basa in gran parte su una serie di testi – Le Détour par le direct (La deviazione attraverso il diretto), Cinema/Ideologia/Critica, Tecnica e ideologia – scritti mentre lui e il co-redattore Jean Narboni indirizzavano la rivista verso una linea marxista-leninista sulla scia della rivolta del maggio ’68. In Francia, invece, è altrettanto noto per il corpus di film realizzati dopo aver lasciato i “Cahiers”: oltre cinquanta titoli che incorporano sia fiction che (prevalentemente) documentari, realizzati sia per il cinema che per la televisione. Dopo una pausa dal cinema, ritorna alla teoria cinematografica alla fine degli anni Ottanta e da allora è stato uno scrittore prolifico, pubblicando due volumi di articoli raccolti (Voir et pouvoir del 2004 e Corps et cadre del 2012), oltre a una serie di monografie culminate con il pamphlet polemico Une certaine tendence du cinéma documentaire del 2021 (in italiano, sono usciti testi sparsi in varie riviste e libri oltre a Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, a cura di Alessandra Cottafavi e Fabrizio Grosoli nel 2006 e Tecnica e ideologia nel 1982). Al di là del cinema, Comolli è stato anche un appassionato di musica jazz, scrivendo spesso per “Jazz Magazine” e coautore del libro Free Jazz/Black Power nel 1971 con Philippe Carles (tradotto da Einaudi).

Nato da una famiglia di pied-noir nella città algerina di Philippeville (oggi Skikda) nel 1941, la giovinezza di Comolli è stata segnata dalla brutalità dell’occupazione francese e dalla successiva guerra d’indipendenza condotta dall’FLN. Nel suo ultimo libro di memorie Une terrasse en Algérie (2018), ha ricordato in termini vividi la realtà quotidiana della vita negli ultimi giorni del dominio coloniale, con un episodio particolare del 1955 che ha segnato un’esperienza politica formativa per il giovane Comolli: tornando a casa da un’escursione in spiaggia, ha assistito a un gruppo di prigionieri arabi trattenuti dalla polizia antisommossa costretti a consegnare le loro carte d’identità, che sono state poi sbrigativamente strappate davanti ai loro occhi in un arbitrario atto di terrore di Stato. La sua giovinezza algerina è stata però anche una scoperta culturale: Comolli ricorda una fame vorace per l’acquisto di dischi jazz, nonché viaggi alla maison de la presse di Philippeville per leggere l’unica copia di “Cahiers du cinéma” che arrivava in città. Nel 1958, quando si trasferisce nella capitale algerina per studiare, diventa un assiduo frequentatore del ciné-club di Algeri gestito da Barthélemy Amengual e fa la conoscenza di Narboni, dando inizio a una stretta amicizia che durerà fino alla morte di Comolli.

Nel 1961 Comolli si trasferisce nuovamente a Parigi, dove, insieme ai nuovi amici Jean-André Fieschi e Jean Eustache, inizia a scrivere per “Cahiers”, allora sotto la direzione di Éric Rohmer. A un testo inaugurale su Sergeant York di Howard Hawks seguì l’ambizioso trattato Vivre le film, che sosteneva un approccio umanistico e fenomenologico al cinema, in contrasto con la prospettiva dei suoi scritti successivi. Il debutto critico di Comolli avviene in un momento di svolta per “Cahiers“: poco dopo, Rohmer viene estromesso con un “golpe” interno e sostituito da Jacques Rivette. Desideroso di passare al lungometraggio come avevano già fatto i suoi colleghi di Cahiers, Rivette vedeva il suo come un ruolo di transizione e nel 1965 passa le redini a Comolli, che in seguito sarebbe stato affiancato da Narboni come condirettore. Ancora poco più che ventenne, con solo un paio di anni di attività come critico alle spalle, Comolli si ritrova così a dirigere la più prestigiosa rivista di cinema di Francia, se non del mondo.

Se era intimorito dalla grandezza del compito, Comolli non lo dava a vedere. Nella seconda metà degli anni Sessanta i  si trovava in uno stato di grande vitalità, al passo con i tempi. Pur introducendo nella squadra dei “Cahiers” una nuova generazione di critici (tra cui Jacques Bontemps, Jacques Aumont, Sylvie Pierre, Bernard Eisenschitz, Pascal Bonitzer e altri), Comolli e Narboni scelsero di avere fede nel pantheon di autori hollywoodiani legati a “Cahiers“(scrivendo encomi sulle ultime opere di Hitchcock, Hawks e Ford), ma anche di sostenere i film della nuova ondata di giovani registi francesi, italiani, polacchi, quebecchesi, brasiliani e di altri paesi. I critici divennero anche promotori culturali: frustrati dalle carenze della distribuzione cinematografica francese, la rivista lanciò una Semaine des Cahiers annuale per presentare i nuovi film di Bertolucci, Skolimowski, Moullet e altri.

Come per molti altri della sua generazione, il maggio ’68 ebbe un effetto elettrizzante sulla vita di Comolli, ma non era del tutto imprevisto per l’équipe di “Cahiers”: la rivista aveva già sperimentato il confronto con la repressione statale gollista, lottando per rovesciare la messa al bando de La Religieuse di Rivette nel 1966 e il licenziamento di Henri Langlois dalla Cinémathèque française nel febbraio 1968, considerato (almeno negli ambienti cinematografici) come un preludio alle proteste che scoppiarono tre mesi dopo. A maggio, Comolli e l’intera équipe di “Cahiers” si unirono alle barricate di Parigi, partecipando anche agli Ã‰tats généraux du cinéma, un’assemblea di massa dei lavoratori del cinema francese che discusse collettivamente i piani per trasformare radicalmente l’industria cinematografica francese. Questi progetti fallirono dopo che de Gaulle ebbe riconfermato il suo potere nelle elezioni legislative del giugno 1968, un momento di reazione politica che Comolli stesso incluse nel suo primo progetto cinematografico, il documentario Les Deux Marseillaises, co-diretto con André S. Labarthe. La sua esperienza con i documentari ha portato anche a uno dei suoi articoli più teoricamente sviluppati di questo periodo, Le Détour par le direct, che esplorava l’infiltrazione di metodi “diretti” (telecamere portatili, suono sincronizzato, riprese improvvisate) nel cinema documentario e di finzione, criticando anche gli eccessi ingenui dei sostenitori del cinéma-vérité: l’«inganno di base» di questo metodo è la sua pretesa di «trascrivere veramente la verità della vita», mentre in realtà un cinema totalmente privo di manipolazioni estetiche è impossibile. I film che sono produttivamente informati dal cinema diretto – le opere di finzione di Miklós Jancsó, per esempio, o eccezionali vignette documentarie come La Reprise du travail aux usines Wonder (Jacques Willement, 1968) – lavorano con il «principio di perversione», che sta alla base del cinema stesso.

Il maggio francese avrebbe avuto un impatto duraturo anche sull’équipe di “Cahiers”. Dall’eclettica politica di sinistra degli anni precedenti al 1968, si spostò rapidamente verso il marxismo, dapprima con un orientamento controintuitivo verso il Parti communiste français, e poi, con un salto di qualità alla fine del 1971, verso l'”antirevisionismo” del movimento maoista francese. L’editoriale di Comolli e Narboni dell’ottobre 1969, Cinema/Ideologia/Critica, fu il segnale evidente di questa svolta, proclamando apertamente che «ogni film è politico» e sviluppando una classificazione in sette parti che determinava il valore politico dei film basandosi principalmente su criteri formali. Il cinema, in quest’ottica, era determinato dall’ideologia che governa la società in cui viene prodotto, e quindi «gravato fin dall’inizio, fin dal primo metro di pellicola elaborata, dall’inevitabilità di riprodurre i fatti non come sono nella loro realtà concreta, ma come sono quando vengono rifratti attraverso l’ideologia», ed era quindi compito della critica cinematografica «tentare l’elaborazione e l’applicazione di una teoria critica del cinema, una modalità specifica di apprensione di oggetti rigorosamente determinati, con riferimento diretto al metodo del materialismo dialettico».

L’editoriale fu uno spartiacque per “Cahiers”, portando a uno scontro con il proprietario Daniel Filipacchi che si risolse nel marzo 1970 con l’acquisto della rivista da parte della redazione e la sua gestione autonoma, e testimoniando al contempo la crescente influenza della teoria critica contemporanea sulla rivista. Roland Barthes, Jacques Lacan, Jacques Derrida, Julia Kristeva e Michel Foucault divennero punti di riferimento comuni per la rivista, ma fu Louis Althusser il maître à penser più conclamato dei “Cahiers” sotto Comolli e Narboni, e gran parte del loro lavoro sul cinema fu debitore della teoria dell’ideologia che sviluppò insieme a discepoli come Pierre Macherey, Jacques Rancière e Alain Badiou. Questa è servita direttamente come base teorica per il testo incompiuto di Comolli in sei parti, Tecnica e ideologia (pubblicato nel 1971-1972), che cercava di stabilire una posizione sul rapporto storico tra tecnologia cinematografica e ideologia – tra l’eccessivo determinismo di Marcelin Pleynet e Jean-Louis Baudry, che vedevano il cinema come uno strumento innatamente idealista della dominazione borghese, e lo scientismo ingenuo di Jean-Patrick Lebel, per il quale la macchina da presa era un attrezzo neutrale e oggettivo. Sebbene Comolli si ritenga «d’accordo con Lebel nel rifiutare di marchiare il cinema con una ‘macchia ideologica naturale’», trova comunque necessario sostenere che «è sotto gli effetti di una domanda economica – cioè all’interno dell’ideologia e come strumento dell’ideologia – che il cinema viene progressivamente immaginato, realizzato e acquistato».

Mentre Comolli si immergeva nella storia del cinema, approfondendo l’invenzione della macchina da presa e l’avvento di tecniche come il primo piano, la profondità di campo e il cinema sonoro, i “Cahiers” vivevano una fase tumultuosa. La svolta maoista della rivista porta con sé sventure personali (Bernard Eisenschitz viene espulso per essere rimasto membro del PCF, mentre Pierre Baudry si dimette e Sylvie Pierre parte per il Brasile) e un parziale abbandono della critica cinematografica, con un interesse riservato solo a pochi cineasti (principalmente Jean-Luc Godard e Jean-Marie Straub/Danièle Huillet). Dopo un progetto sfortunato di costruire un “Front culturel révolutionnaire” con altri attivisti culturali marxisti, la rivista fu sul punto di crollare alla fine del 1973, con Comolli e Narboni che si dimisero entrambi dai loro incarichi editoriali in preda alla disperazione, in un momento in cui la sinistra militante più in generale era in crisi. Come racconterà in seguito Comolli, in un’intervista realizzata dall’autore di questo testo, «uscimmo dal fallimento del Fronte Culturale Rivoluzionario ammaccati e insanguinati. In seguito, una sera ci incontrammo in un bar, ci guardammo e, senza bisogno di dire molto, capimmo tutti profondamente che la nostra volontà di continuare questo progetto era venuta meno».  

Uscito da un’attività critica che aveva monopolizzato il decennio precedente della sua vita, Comolli intraprende il tanto agognato passaggio alla regia cinematografica. Il suo primo lungometraggio, Cecilia – storia di una comune anarchica (girato alla fine del 1974), ha come soggetto l’esperienza storica di una colonia di anarchici italiani che, sotto la guida di Giovanni Rossi, fondarono una comune agricola di breve durata in Brasile alla fine del XIX secolo. Con performance improvvisate e ampie riprese in profondità, a livello formale Cecilia deve molto a cineasti del pantheon di Comolli come Jancsó e Pierre Perrault (entrambi soggetti di episodi diretti da Comolli per la serie Cinéastes de notre temps di Labarthe), ma è anche, retrospettivamente, un’allegoria delle esperienze di Comolli nei “Cahiers”, con la sua combinazione di collettivismo utopico, ostinazione politica e distacco ermetico dal mondo esterno che porta inevitabilmente alla discordia interna. Cecilia fu accolto modestamente ma calorosamente alla sua uscita, ma i tentativi di Comolli di sfondare nell’industria cinematografica come autore sul modello di Godard o François Truffaut sarebbero risultati deludenti: un progetto sulla Comune parigina fu annunciato per il 1978 ma fallì, e L’Ombre rouge del 1982 sarebbe stata la sua uscita successiva. Un thriller di spionaggio incentrato sui trafficanti di armi comunisti di Marsiglia durante la guerra civile spagnola, il film fu un’impresa logistica più considerevole rispetto al suo primo lungometraggio e, senza l’improvvisazione spontanea di Cecilia, le riprese non furono un’esperienza univocamente positiva per Comolli.

È invece nel campo del documentario che Comolli trova la sua vocazione di cineasta. Tornando vent’anni dopo sul luogo di Les Deux Marseillaises, la politica elettorale nel sobborgo parigino di Asnières, per il documentario Tous pour un! del 1988, Comolli inizia a intraprendere un progetto che si sarebbe poi trasformato nella serie in dieci parti Marseille contre Marseille. Insieme al giornalista Michel Samson, Comolli ritorna nella città meridionale, elezione dopo elezione, dal 1989 al 2014, producendo una lunga cronaca delle trasformazioni politiche dell’epoca: dal crollo dell’egemonia socialdemocratica nella città operaia all’ascesa del populismo xenofobo del Front national. Quest’ultimo, nella diagnosi di Comolli, era un mero sintomo della trasformazione della politica elettorale dalle mobilitazioni organiche della popolazione locale agli spettacoli vuoti e carichi di slogan. Il suo gesto di filmare ripetutamente lunghe interviste con i candidati e altre figure politiche, per scoprire le dinamiche più profonde che sottendono i colpi di scena congiunturali delle campagne elettorali, era antitetico alla logica di governo della copertura televisiva della sfera politica, ma per ironia della sorte la maggior parte della serie è stata realizzata per la trasmissione sulle reti televisive, una scelta che Comolli ha difeso sulla base della sua capacità di «mostrare sul piccolo schermo […] sistemi formali che si discostano da quelli dominanti» e di «raggiungere spettatori che non sono già stati rigorosamente classificati all’interno dei segmenti culturali del mercato».

Marseille contre Marseille Ã¨ solo una parte della produzione documentaristica di Comolli tra gli anni ’90 e il 2010, che analizza la copertura mediatica di eventi politici (Jeux de rôles à Carpentras, 1998, e Le Monde dans l’arène, 2008), gli scioperi sindacali (Rêve d’un jour, 1995 e Jours de grève à Paris Nord, 2003), l’eredità del colonialismo francese (Belep danse autour de la terre, 1990 e Les Esprits de Koniambo (en terre kanak), 2004) e, con i documentari omaggio a Chahine, Rossellini, Fellini e Resnais, al cinema stesso. Nel 2011, invece, Comolli interroga perfino il proprio passato a â€œCahiers“ insieme a Narboni in Ã€ voir absolument (si possible). Ma i dieci film che compongono la serie di Marsiglia saranno inevitabilmente considerati il suo vero magnum opus e un’impresa unica nella storia del cinema.

Quest’opera è resa ancora più peculiare dal fatto che Comolli l’ha portata avanti insieme a una rinnovata indagine teorica sul cinema, che lo colloca nella schiera di Sergei Eisenstein, Dziga Vertov, Jean Epstein, Pier Paolo Pasolini e Alexander Kluge come uno dei grandi cineasti-teorici. Molti dei suoi testi di questo periodo –sotto forma di articoli, capitoli di libri, prefazioni o interviste – interrogano il suo stesso cinema e la loro lettura oggi può aiutarci a tracciare l’evoluzione del suo pensiero sulla forma che un cinema veramente politico dovrebbe assumere, una questione che ha assunto maggiore urgenza quando si è trattato di combattere l’ascesa elettorale del Front national. Ma è stato altrettanto prolifico quando si è trattato di scrivere sul lavoro di altri o di sondare problemi più generali di teoria e storia del cinema. Nel 2009, il suo libro Cinéma, contre spectacle, ha cercato di dare finalmente una conclusione a Tecnica e ideologia, 37 anni dopo che la serie era stata inizialmente lasciata incompleta. Nel frattempo, tuttavia, il cinema (e il mondo in generale) ha subito trasformazioni smisurate, tanto che Comolli affermerà che «la santa alleanza tra spettacolo e prodotto, prevista e analizzata da Guy Debord a partire dal 1967, si è ormai realizzata. Essa governa il nostro mondo. Da un polo all’altro, attraverso i tropici, il capitale nella sua veste attuale ha trovato l’arma definitiva per il suo dominio: le immagini e i suoni”»  Se il Comolli del XXI secolo trovava persuasiva la diagnosi di Debord sul tardo capitalismo, non condivideva il rifiuto totalizzante dei situazionisti nei confronti del cinema, mantenendo invece una concezione militante di un mezzo che può ancora, a suo avviso, essere «in grado di concepire e costruire uno spettatore degno di questo nome».

Questa posizione militante, che testimonia la sua costante fiducia nella possibilità di emancipazione politica e artistica nel mezzo secolo trascorso dal maggio ’68, ha costituito anche la base per i successivi libri di Comolli sul cinema documentario nell’era contemporanea, Cinéma, mode d’emploi (2015, con Vincent Sorel), Cinéma, numérique, survie(2019) e Une certaine tendence du cinéma documentaire. In tutti questi lavori, Comolli si scaglia contro l’ideologia dittatoriale della tecnologia digitale, sostenendo al contempo il suo utilizzo per la creazione di forme audiovisive alternative. In Daech, le cinema et la mort (2015), invece, ha rivolto lo sguardo a uno dei fenomeni più macabri della cultura dell’immagine della metà degli anni ’90, i videoclip prodotti dall’ISIS che ritraevano la tortura o l’esecuzione dei prigionieri del movimento fondamentalista islamico. Per quanto ontologicamente osceni possano essere questi artefatti mediatici, Comolli finisce per accettare che «attraverso l’iscrizione di un fotogramma, il loro trascorrere in una durata specifica, i filmati dell’ISIS rientrano effettivamente nella categoria del cinema». Questo, ha ammesso prontamente, «mi sconvolge, rovescia ciò che resta in me della mia giovane cinefilia, ma è un dato di fatto».  Ha insistito, polemicamente, sulla necessità morale di guardare questi video, con la speranza di «salvare il cinema da ciò che lo infanga», per poterli criticare e quindi combattere più efficacemente.

L’ostinato radicalismo della politica di Comolli è stato eguagliato solo dal suo calore umano e dalla sua generosità. Marito affettuoso di Marianna di Vettimo fino alla morte di quest’ultima, avvenuta pochi anni prima della sua, Comolli ha mantenuto amicizie di lunga data con i suoi colleghi, tra cui molti dei suoi ex colleghi di “Cahiers”, ma è ha anche dedicato tempo ed energie illimitate alle richieste dei cinefili più giovani. Soprattutto, la passione per il cinema è stata una parte costante della sua vita, dai giorni della giovinezza in cui guardava avidamente le offerte della cineteca di Algeri, passando per lo Sturm-und-Drang del periodo in cui è stato redattore di “Cahiers”, fino alla sua decennale esperienza di produzione, teorizzazione e insegnamento del cinema. Di Jean-Louis Comolli si può veramente dire che è stato un uomo di cinema.

Traduzione di Claudia Basagna. L’articolo è uscito anche in inglese per Senses of cinema. 

In copertina, un’immagine del film Marseille contre Marseille

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